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Cassazione civile , sez., sentenza 24.02.2004 n° 3640
In tema di condominio di edifici il singolo condomino nell'esercizio delle sua facoltà non può alterare la destinazione del bene comune e non può impedire agli altri partecipanti di fare parimenti uso della stessa cosa.
Lo ha ribadito la Cassazione, con la sentenza n. 3640 del 24 febbraio 2004, riscontrando un abuso nel comportamento di un condomino che aveva mantenuto ferma per lunghi periodi di tempo la sua autovettura nel parcheggio condominiale manifestando l'intenzione di possedere il bene in maniera esclusiva ed ostacolandone il libero e pacifico godimento ed alterando l'equilibrio tra le concorrenti ed analoghe facoltà.
(Altalex, 20 maggio 2004)

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
SENTENZA 24 febbraio 2004 n. 3640

(Dott. Alfredo MENSITIERI - Presidente, Dott. Rosario DE JULIO - Relatore)

Fatto

Con atto di citazione notificato il 26.2.1996 F.V. e S.A. convenivano in giudizio avanti il pretore di Milano - Sez. distaccata di Legnano - B.V. e ne chiedevano la condanna alla rimozione della autovettura Fiat 500 da lui parcheggiata nel cortile comune antistante l'abitazione degli attori ed al risarcimento dei danni.
Il B. nel costituirsi eccepiva di aver ceduto la proprietà della vettura al padre G..
G. B. spiegava intervento volontario nel procedimento e resisteva eccependo la litispendenza con altra causa (RGN 22906/1994) pendente tra le stesse parti e in grado di appello avanti ad altro giudice del Tribunale di Milano avente il medesimo oggetto.
Nel corso dell'istruttoria le parti davano atto che l'autovettura era stata sostituita con una Fiat 126, ed il Pretore, al termine di essa, emetteva sentenza del 6.11.97, con cui accoglieva l'eccezione di difetto di legittimazione passiva di B.V. e respingeva quella di litispendenza; in accoglimento della domanda degli attori condannava B. G. a rimuovere l'autovettura dal cortile antistante la abitazione di F. e S..
B. G. proponeva appello e ribadiva l'eccezione di litispendenza e la legittimità del proprio comportamento ai sensi dell'art. 1102 c.c.
Il Tribunale adito, con sentenza 9518/2000 del 27.7.2000, respingeva l'eccezione di litispendenza con la causa n. 22906/99, pendente innanzi al tribunale di Milano, avente ad oggetto la turbativa della proprietà esclusiva o comune del cortile, confermando altresì la sentenza del pretore, ritenendo che la collocazione continua della autovettura del B. in uno spazio comune del cortile costituisce un abuso del diritto del comproprietario ed impedisce agli altri condomini di partecipare all'utilizzo dello stesso spazio.
Avverso la sentenza del Tribunale ha proposto ricorso per cassazione B. G. con due motivi.
F.V. e S.A. resistono con controricorso.

Diritto

Col primo motivo il ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di norme di diritto ed insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia (art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.) con riferimento all'art. 1102, 1° comma, cod. civ., per avere il Tribunale erroneamente affermato che il ricorrente, occupando una porzione del cortile comune con la sua modesta autovettura di piccola cilindrata, ha impedito il pari uso del cortile comune, pregiudicando l'uguale diritto di F.V. e S.A. di passare nel detto cortile e di parcheggiare a loro volta una automobile, essendo molto esiguo lo spazio occupato dal B..
Deduce il ricorrente che F. e S. potevano esercitare sul cortile comune ogni attività di esercizio e godimento del loro diritto di comproprietari dello spazio; che la destinazione dello stesso non era stata in alcun modo mutata, per cui il comportamento del B. non poteva essere censurato essendo pienamente legittimato dall'art. 1102 cod. civ.; che la sentenza impugnata risultava insufficientemente motivata, perché non spiegava il concetto di uso comune ed in quale modo verrebbe turbato o impedito dal B..
Col secondo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto ed insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia (art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.) con riferimento all'art. 39 c.p.c., perché il Tribunale ha omesso di considerare che l'oggetto della causa di appello consisteva nell'accertamento dell'occupazione abusiva del cortile, che aveva come presupposto l'accertamento della proprietà comune del cortile stesso, oggetto di altro procedimento civile tra le stesse parti innanzi al Tribunale di Milano; e che vi è litispendenza ogni volta che vi siano pendenti due cause tra le stesse parti aventi medesimo "petitum" e "causa pretendi", innanzi a giudici diversi; che nella causa in esame il "petitum" consiste nella rimozione del veicolo dal cortile comune, adducendo la turbativa dell'uso comune, mentre nell'altra causa si chiede la rimozione del veicolo dal cortile adducendo la turbativa del pieno godimento dell'abitazione.
Conclude il ricorrente che il Tribunale, per il principio del "ne bis in idem", di cui all'art. 39 c.p.c., avrebbe dovuto dichiarare l'improcedibilità del processo, imponendo la cancellazione dal ruolo della causa posteriormente iscritta.
Il primo motivo è infondato e va respinto, perché il Tribunale ha correttamente ritenuto: che la condotta del B. nel mantenere ferma per lunghi periodi di tempo la sua autovettura ha manifestato l'intenzione di possedere il bene in maniera esclusiva, trattandosi di occupazione stabile di uno spazio comune; che detta condotta ha costituito una sorta di abuso, impedendo agli altri condomini di partecipare all'utilizzo dello spazio comune, ostacolandone il libero e pacifico godimento ed alterando l'equilibrio tra le concorrenti ed analoghe facoltà; che il comportamento posto in essere dal B. G. non può essere ricompreso nelle facoltà concesse al comproprietario ai sensi dell'art. 1102 cod. civ., perché tale uso non può alterare la destinazione del bene comune e non può impedire agli altri partecipanti di fare parimenti uso della stessa cosa (cfr. "ex multis" Cass. sentt. n. 7652/1994, n. 7752/1995, n. 11520/1999, n. 1499/1998).
Anche il secondo motivo è infondato e va respinto, per la diversità della "causa pretendi" delle due cause, come riconosciuto da entrambi i giudici di merito, i quali hanno individuato il "petitum" del presente giudizio nella domanda di manutenzione nel possesso del cortile, mentre nello altro giudizio nella domanda di manutenzione nel possesso dell'abitazione.
La motivazione della sentenza impugnata è puntuale, ampia, corretta ed esente da vizi logici o da errori di diritto.
Respinto il ricorso, le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in euro 91,00 per spese ed in euro 1500,00 per onorari, oltre accessori di legge.
Cosi deciso in Roma il 24 settembre 2003.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 24 febbraio 2004.
07/03/2012
Tar Sardegna Sez. II - Sent. del 01/03/2012, n. 207

La richiesta della concessione edilizia da parte del proprietario di un appartamento sul quale devono essere eseguiti i lavori , deve essere corredata dell’autorizzazione dell’assemblea del condominio tutte le volte in cui le opere (nella specie ampliamento di un balcone) incidono sulle parti comuni dell’edificio condominiale (facciata dell’edificio);

Fonte: http://www.condominioweb.com/condominio/sentenza2092.ashx#ixzz34VraHvUa
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Cassazione civile , sez. II, sentenza 27.01.2004 n° 1420
Salvo deroga contrattuale attraverso una convenzione che obblighi tutti i condomini le spese di sostituzione della caldaia condominiale devono essere ripartite secondo i millesimi di proprietà e non seconso l’uso che ciascun condomino può farne.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 1420 del 27 gennaio 2004, precisando che tali spese, attenendo alla conservazione, cioè alla tutela dell’integrità materiale e, quindi, del valore capitale dell’impianto comune, interessano i condomini quali proprietari dell’impianto, a cui carico la legge pone l’obbligo di concorrere alle spese, configurando a carico di essi obligationes propter rem, che, nascendo dalla contitolarità del diritto reale sull’impianto comune, sono dovute in proporzione della quota che esprime la misura della appartenenza.
La Suprema Corte ha inoltre ricordato che, ove nell’edificio condominiale vi siano locali (ad esempio box-cantine) non serviti dall’impianto di riscaldamento centralizzato, i condomini titolari, soltanto, della proprietà di tali locali, non sono contitolari dell’impianto centralizzato, non essendo questo legato da una relazione di accessorietà, cioè da un collegamento strumentale, materiale e funzionale all’uso o al servizio di quei beni.
Altalex, 5 marzo 2004

Cassazione
Sezione seconda civile
Sentenza 27 gennaio 2004, n. 1420
(Presidente Pontorieri – relatore Trombetta)

Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato il 24 novembre 1993 M.M., condomina dell’edificio sito in Genova, Via xxxxxxxxxxxxx, conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Genova il condominio perché fosse annullata la delibera assembleare 16 settembre 1993 con la quale le spese di sostituzione della caldaia dell’impianto di riscaldamento comune erano state ripartite secondo i millesimi della tabella di riscaldamento, anziché secondo i millesimi di proprietà.
Il condomino, costituitosi, contestava la domanda asserendo che la delibera era stata regolarmente assunta secondo l’articolo 9 del regolamento, da sempre osservato in analoghe fattispecie.
Il Tribunale, con sentenza 28 novembre 1996, rigettava la domanda sul rilievo che pur in assenza di un valido regolamento condominiale, nulla vietava all’assemblea di ripartire la suddetta spesa secondo le tabelle del riscaldamento, lungamente osservate in conformità all’articolo 1123 secondo comma, Cc.
Su impugnazione della M., la Corte di appello di Genova, con sentenza 23 maggio 2000, accoglieva l’appello annullando la delibera nella parte in cui non ripartiva le spese per la sostituzione della caldaia, secondo i millesimi di proprietà.
Afferma la Corte che, non risultando l’esistenza di particolari accordi che abbiano interessato la totalità dei condomini, né potendo aver rilievo il regolamento di condominio prodotto in appello, stante la contestazione di controparte e non risultando la sua valida approvazione da parte dei condomini; il criterio da seguire nel risolvere la controversia è quello di ripartire le spese di conservazione dei servizi comuni, costituenti obbligationes propter rem, ed il cui fondamento è il diritto di comproprietà, secondo i millesimi di proprietà; mentre le spese per l’uso dei servizi comuni, che hanno il loro fondamento nel godimento che ciascun condomino trae dalle cose comuni e dai relativi servizi, vanno ripartite in base ai consumi. Secondo la Corte pertanto la spesa per la sostituzione della caldaia va ripartita secondo i millesimi di proprietà.
Avverso tale sentenza ricorre in Cassazione il Condominio, resiste con controricorso la M. che ha depositato memoria.

Motivi della decisione Il condominio ricorrente deduce a motivi di ricorso:
1. la violazione e falsa applicazione degli articoli 1136, 1123 secondo comma Cc, 112 Cpc; l’omesso esame e l’omessa motivazione su un punto decisivo della controversia per avere la Corte d’appello erroneamente, nel ripartire le spese per la sostituzione della caldaia del riscaldamento secondo i millesimi di proprietà, trascurato quanto stabilito dall’articolo 1123, secondo comma Cc che sempre per le spese di conservazione e per quelle di godimento di cui al primo comma prevede anche la possibilità di ripartirle secondo l’uso (oltreché secondo i millesimi di proprietà) cosicché legittima deve ritenersi la delibera assembleare che ripartisce le suddette spese secondo i millesimi del riscaldamento, non sussistendo alcuna concorde delibera contraria; mentre la ripartizione secondo i millesimi di proprietà determinerebbe l’incongruo accollo delle spese per la sostituzione della caldaia da parte di chi non usufruisce del servizio di riscaldamento come i proprietari di box e cantine i quali non comproprietari dell’impianto di riscaldamento sempreché questo rientri ex articolo 1117 Cc nelle cose comuni oppure sia ritenuto tale da un regolamento condominiale di natura contrattuale, predisposto dall’originario unico proprietario e accettato nei singoli atti di acquisto, ovvero adottato con il consenso unanime di tutti i partecipanti;
2. l’omesso esame, l’omessa motivazione su un punto decisivo per avere la Corte d’appello omesso di considerare che esisteva un regolamento “materiale” di condominio; osservato da tutti i condomini ed approvato per fatti concludenti nel corso degli anni e che prevedeva la ripartizione della spesa de qua in base ai millesimi di riscaldamento, la cui revisione richiedeva che fosse effettuata solo con il consenso di tutti i condomini o, in mancanza, del giudice.
Il ricorso è infondato.
Quanto al primo motivo, corretto deve ritenersi il criterio seguito dalla Corte di appello, di ripartire le spese di sostituzione della caldaia secondo i millesimi di proprietà.
Va, infatti, in generale precisato che, trattandosi di spese che attengono alla conservazione, cioè alla tutela dell’integrità materiale e, quindi, del valore capitale dell’impianto comune, esse interessano i condomini quali proprietari dell’impianto, a cui carico la legge (articolo 1123 primo comma Cc) pone l’obbligo di concorrere alle spese, configurando a carico di essi obligationes propter rem, che, nascendo dalla con titolarità del diritto reale sull’impianto comune, sono dovute in proporzione della quota che esprime la misura della appartenenza.
In altri termini, è proprio il nesso che esiste fra il diritto di comproprietà e l’obbligo, che fa si che il quantum del contributo debba corrispondere al valore della quota.
Consegue da ciò che, ove nell’edificio condominiale vi siano locali (ad esempio box-cantine) non serviti dall’impianto di riscaldamento centralizzato, i condomini titolari, soltanto, della proprietà di tali locali, non sono contitolari dell’impianto centralizzato, non essendo questo legato da una relazione di accessorietà, cioè da un collegamento strumentale, materiale e funzionale all’uso o al servizio di quei beni; cosicché, venendo meno il presupposto per l’attribuzione della proprietà comune dell’impianto viene meno anche l’obbligazione propter rem di contribuire alle spese per la conservazione dello stesso.
Non si pone, pertanto, il problema cui fa riferimento il condominio ricorrente nel mettere in rilievo l’inconveniente cui sarebbe esposto il criterio di ripartizione delle spese secondo i millesimi di proprietà applicato ai condomini non serviti dall’impianto di riscaldamento.
Secondo la disciplina dettata dal codice, non è invece applicabile alle spese di conservazione, qual è quella per la sostituzione della caldaia, il criterio di ripartizione di cui al secondo comma dell’articolo 1123 Cc, il quale ha ad oggetto solo le spese per l’uso ed in particolare per l’uso di quelle cose e impianti comuni che, essendo suscettibili per struttura e funzione, di godimento personale e soggettivo differenziato, consentono di porre l’uso che ciascun condomino può farne, e, quindi, la misura di quell’uso, a criterio di determinazione del quantum del contributo di spesa necessaria a coprire il costo.
Tale essendo la disciplina prevista, in generale dai primi due commi dell’articolo 1123 Cc, va rilevato, in ordine al secondo motivo di ricorso, che, pur essendo tale normativa derogabile la deroga è possibile solo per via contrattuale, attraverso una convenzione che obblighi tutti i condomini; non rientrando fra le attribuzioni della assemblea condominiale, quella di deliberare in ordine a criteri di ripartizione delle spese, in contrasto con quelli previsti dalla legge, traducendosi una tale delibera in una lesione dei diritti del singolo condominio attraverso il mutamento del valore riconosciuto alla parte di edificio di sua proprietà elusiva (v. sentenza 3042/95). Ritenuta la mancanza di prova sia della convenzione derogatoria che obblighi tutti i condomini, di cui si è sopra detto; sia della osservanza, per facta concludentia, da parte di tutti i suddetti condomini dell’asserito accordo derogatorio, non merita alcuna censura la dichiarata invalidità della delibera 16 marzo 1993.
Il ricorso va, pertanto, respinto.
Sussistono giusti motivi per dichiarare interamente compensate fra le parti le spese del presente giudizio.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; dichiara interamente compensate fra le parti le spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma il 4 giugno 2003.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 27 gennaio 2004.
04/03/2013
Cass., sez. II Civile, sentenza del 21 febbraio 2013, n. 4340
La delibera assembleare, con la quale sia stata disposta la chiusura di un'area di accesso al fabbricato condominiale con uno o più cancelli per disciplinare il transito pedonale e veicolare anche in funzione di impedire l'indiscriminato accesso di terzi estranei a tale area, rientra legittimamente nei poteri dell'assemblea dei condomini, attinendo all'uso della cosa comune ed alla sua regolamentazione, senza sopprimere o limitare le facoltà di godimento dei condomini, non incidendo sull'essenza del bene comune né alterandone la funzione o la destinazione. Pertanto, non è richiesta, per la legittimità di una delibera assembleare condominiale avente detto oggetto, l'adozione con la maggioranza qualificata dei due terzi del valore dell'edificio, non concernendo tale delibera una "innovazione" secondo il significato attribuito a tale espressione dal codice civile, ma riguardando solo la regolamentazione dell'uso ordinario della cosa comune consistente nel consentire a terzi estranei al condominio l'indiscriminato accesso alle aree condominiali

Fonte: http://www.condominioweb.com/condominio/sentenza2280.ashx#ixzz34Vr0HwUM
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L’art 659 c.p. recita al 1° comma che: “chiunque, mediante schiamazzi o rumori, ovvero abusando di strumenti sonori o di segnalazioni acustiche, ovvero suscitando o non impedendo strepiti di animali, disturba le occupazioni o il riposo delle persone, ovvero gli spettacoli, i ritrovi o i trattenimenti pubblici, è punito con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a 309 euro” .
Segue il 2 comma che: “applica l’ ammenda da 103 euro a 516 euro a chi esercita una professione o un mestiere rumoroso contro le disposizioni della legge o le prescrizioni dell’autorità”.
Tale tipo di reato si colloca tra quelli di pericolo per la caratteristica del bene da tutelare costituito dalla quiete pubblica e della tranquillità privata con particolare riguardo al riposo delle persone e al tranquillo svolgimento delle loro occupazioni.
Elementi costitutivi del reato sono riassumibili nella condotta, di tipo commissivo od omissivo, idonea a determinare il disturbo delle occupazioni o del riposo e il dolo o colpa (elemento soggettivo). Ai fini della punibilità del soggetto agente è necessario che la stessa sia astrattamente idonea ad arrecare un disturbo diffuso e generalizzato delle occupazioni e/o del riposo di una multitudine di persone, quantunque sia anche una sola persona a lamentarsene.
La vicenda vedeva coinvolta una coppia di coniugi che in seguito alla condanna del Tribunale di Salerno, per schiamazzi e rumori provocati dal suono del pianoforte e dell’abbaiare del loro cane che ne disturbavano l’ occupazione e il riposo di un vicino nelle ore pomeridiane proponevano ricorso per Cassazione.
Con la sentenza n. 44916 del 7 novembre 2013, i Giudici di Piazza Cavour hanno statuito che risponde del reato di cui all’art. 659 c.p. chi non impedisce il molesto abbaiare del proprio cane anche se custodito nella sua proprietà e ciò se l’accaduto viene confermato dall’intero condominio.
Una sentenza quest’ ultima che ha segna la prevalenza su quelle dettate a difesa del diritto esistenziale dell’ animale di abbaiare.
18/02/2012
Corte Appello Napoli, Sez. II Civ. sentenza del 11/01/2012

Tra le modalità di comunicazione, la lettera raccomandata, anche in mancanza dell'avviso di ricevimento, costituisce prova certa della spedizione attestata dall'ufficio postale attraverso la ricevuta, da cui consegue la presunzione, fondata sulle univoche e concludenti circostanze della spedizione e dell'ordinaria regolarità del servizio postale, di arrivo dell'atto al destinatario e di conoscenza ex art. 1335 c.c. dello stesso, per cui spetta al destinatario l'onere di dimostrare di essersi trovato senza sua colpa nell'impossibilità di acquisire conoscenza dell'atto.

Fonte: http://www.condominioweb.com/condominio/sentenza2079.ashx#ixzz34Vtkns9g
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15/02/2013
Cass., sez. VI Civile, sentenza del 13 febbraio 2013, n. 3586

In tema di condominio, la disposizione dell'art. 1126 c.c., il quale regola la ripartizione fra i condomini delle spese di riparazione del lastrico solare di uso esclusivo di uno di essi, si riferisce alle riparazioni dovute a vetustà e non a quelle riconducibili a difetti originari di progettazione o di esecuzione dell'opera, indebitamente tollerati dal singolo proprietario; pertanto, in tale ultima ipotesi, ove trattasi di difetti suscettibili di recare danno a terzi, la responsabilità relativa, sia in ordine alla mancata eliminazione delle cause del danno che al risarcimento, fa carico in via esclusiva al proprietario del lastrico solare, ex art. 2051 c.c., e non anche - sia pure in via concorrenziale - al condominio. In altri termini, mentre per i vizi riconducibili a vetustà e a deterioramento per difetto di manutenzione del lastrico solare trova applicazione (v. Cass., S.U., n. 3672 del 1997; Cass. n. 5848 del 2007 e Cass. n. 4596 del 2012) l'art. 1126 c.c. (secondo le proporzioni di apporto economico in esso previste per le relative riparazioni, ovvero nella misura dei due terzi a carico dei condomini, ai quali il lastrico serve da copertura, e di un terzo da accollare al titolare della proprietà superficiaria o dell'uso esclusivo), con riferimento alla responsabilità per i danni ricollegabili ai difetti originari di progettazione o di esecuzione, anche in sede di ricostruzione, del lastrico solare si applica il disposto dell'art. 2051 c.c., con il conseguente accollo del relativo onere economico in capo al proprietario esclusivo dello stesso, senza alcuna compartecipazione del Condominio.

Fonte: http://www.condominioweb.com/condominio/sentenza2273.ashx#ixzz34VrJxfIa
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14/05/2014
Avv. Giuseppe Scordari

Il documento. Tale utile e atteso documento è stato siglato dalle due parti più rappresentative delle rispettive categorie, ossia da Confedilizia, l'associazione dei proprietari immobiliari, e i sindacati degli inquilini Sunia, Sicet e Uniat e va a sostituire la vecchia ed alquanto datata tabella che era stata creata nel lontano 1999, la quale di fatto poi era stata recepita nell'allegato G del D.M. 30 dicembre 2002. Era quindi necessario tale intervento sotto diversi punti di vista: era sicuramente utile al fine di rendere attuali le diverse riforme avvenute in questi anni nell'ambito della normativa condominiale; era fondamentale inoltre attualizzare la ripartizione di alcune spese che magari 15 anni fa ancora non esistevano in quanto sorte a seguito dell'avanzamento tecnologico degli ultimi 20 anni; era infine, ma non certo per importanza, utile fornire un documento chiaro, certo e visibile che racchiuda anche i diversi orientamenti giurisprudenziali avuti proprio nell'ambito della ripartizione delle spese fra conduttore e locatore.
Come utilizzare la tabella. Per quanto concerne l'utilizzo, tale tabella può essere usata e quindi applicata, di comune accordo, richiamandola semplicemente in sede si stipula e sottoscrizione del contratto di locazione attraverso una formula che recita: «Gli oneri accessori alla locazione di cui al presente contratto vengono ripartiti in base alla tabella oneri accessori ripartizione fra locatore e conduttore concordata tra Confedilizia e Sunia-Sicet-Uniat registrata il 30 aprile 2014 a Roma (agenzia Entrate, ufficio territoriale Roma 2, n.8455/3)».
Effetto deflativo sulle liti. L'importanza di tale documento inoltre, oltre a rendere palesi e certe le relative ripartizioni in ambito di spese condominiali, può sicuramente avere un effetto benefico anche per quanto riguarda le potenziali liti che potrebbero insorgere fra locatore e conduttore, le quali sicuramente potrebbero evitarsi attraverso il richiamo, e la conseguente applicazione, nel contratto di locazione di tale documento. Inoltre, gli stessi sindacati, hanno mostrato l'intenzione di creare una commissione paritetica nazionale che guidi attraverso pareri, chiarimenti e interpretazioni alle strutture territoriali firmatarie, a soggetti di rappresentanza e ai cittadini, in merito ai contenuti delle ripartizioni, al fine quindi anche di evitare possibili, e a volte inutili, liti giudiziarie tra conduttore e locatore che andrebbero ad intasare un settore già alquanto colmo.
Contenuto della tabella. La tabella si presenta come un documento alquanto esaustivo. Infatti disciplina ampi settori, dall'ascensore all'autoclave, dal riscaldamento ai condizionatori d'aria, dalle parti comuni agli interni, alle spese di portierato, fino ad includere settori che nel 1999 non erano contemplati, quali la videosorveglianza, fonti rinnovabili di energia, inserite quindi per rendere tale documento al passo con i tempi. Ma analizziamo, con chiarezza, le vari voci presenti.
In linea generale possiamo affermare che gli inquilini devono sostenere le spese c.d. di "ordinaria amministrazione" ossia tutte le manutenzioni ordinarie e le piccole riparazioni, le spese per il consumo di energia con relative letture e le ispezioni e collaudi degli impianti (ascensore, autoclave, impianti di illuminazione, videocitofono e videosorveglianza, ricezione televisiva e flussi informativi) e, per il sistema antincendio, la ricarica degli estintori degli impianti antincendio.
Sul proprietario gravano, invece, le c.d. spese di straordinaria amministrazione, come l'installazione di nuovi impianti o il loro rifacimento, l'adeguamento alle disposizioni di legge, l'acquisto degli estintori degli impianti antincendio.
Per quanto concerne le tasse l'inquilino dovrà pagare la tassa rifiuti e quella sull'occupazione del suolo pubblico in caso di lavori condominiali; il proprietario invece dovrà pagare l'Imu, mentre la tassa del passo carrabile sarà a carico del conduttore.
In caso il condominio disponga del servizio di portierato, le spese relative al portiere sono a carico dell'inquilino al 90% e del proprietario al 10 per cento, tranne il materiale di pulizia che tocca interamente all'inquilino e, in coerenza con le altre divisioni, la manutenzione straordinaria della c.d. guardiola, ossia il piccolo vano usato dal portiere, spetta interamente al proprietario: tale suddivisione richiama la "vecchia" disciplina della L. 392/1978, legge ormai abrogata. Spese condominiali: il conduttore ha sempre diritto di avere giustificazioni in merito alle richieste.
Infine, per le spese relative alla pulizia delle parti comuni del condominio, le pratiche per l'assunzione o per il conferimento dell'appalto ad un'impresa, l'acquisto e sostituzione di macchinari per la pulizia, bidoni e contenitori spettano al locatore, mentre tutto il resto (stipendi e altre spese in generale, derattizzazione, sacchi, sgombero della neve) spetta al conduttore.
La tabella inoltre contiene anche alcune voci relative alle parti interne dell'appartamento locato, le quali sono disciplinate alla stregua del doppio binario relativo alle spese di ordinaria-straordinaria amministrazione.
In calce alla tabella, infine, per le voci non previste dalla tabella stessa si rimanda alle norme di legge e agli usi locali.
29/12/2009
Avv. Luigi Modaffari

IL REGOLAMENTO CONDOMINIALE
Innanzitutto, solitamente, il regolamento condominiale prevede una o più clausole che vietano ai condomini di porre in essere, negli orari di solito adibiti al riposo ed alla tranquillità, attività tali da arrecare disturbo agli altri condomini. Tali clausole, al giorno d'oggi, sono sempre più specifiche e dettagliate ed, in tanti casi, specificano una serie di attività “vietate” proprio per tutelare la quiete degli altri condomini. Solitamente, poi, dette clausole sono predisposte dal costruttore ed i condomini, acquistando un appartamento nel condominio, ne accettano in toto il relativo contenuto e le relative prescrizioni. Di talchè, nel caso in cui sia posta in essere una attività rumorosa vietata, gli altri condomini (anche singolarmente e senza l'appoggio dell'amministratore) hanno diritto a chiedere l'immediata cessazione dell'attività “molesta” e ilo risarcimento del danno, se dimostrabile.
Infatti, sul punto la Cassazione è concorde nel statuire che “tenuto conto che sono legittime le restrizioni alle facoltà inerenti alla proprietà esclusiva contenute nel regolamento di condominio di natura contrattuale, purché formulate in modo espresso o comunque non equivoco - sì da non lasciare alcun margine d'incertezza sul contenuto e la portata delle relative disposizioni - le norme regolamentari possono imporre limitazioni al godimento degli immobili di proprietà esclusiva secondo criteri anche più rigorosi di quelli stabiliti, in tema di immissioni lecite, dall'art. 844 c.c. Ne consegue che in tal caso la liceità o meno dell'immissione deve essere determinata non sulla base della norma civilistica generale ma alla stregua del criterio di valutazione fissato dal regolamento. (Nella specie, la Corte ha ritenuto corretta la decisione dei giudici di appello, secondo cui la destinazione di un appartamento a studio medico dentistico non violava la norma del regolamento condominiale di natura contrattuale che vietava l'esercizio negli immobili di proprietà esclusiva di attività rumorose maleodoranti ed antiigieniche, atteso che l'attività espletata non presentava in concreto tali caratteri)”(Cass. civ., Sez. II, 07/01/2004, n.23).
Ancora “In ragione delle determinazioni adottate dai privati nell'ambito della loro autonomia contrattuale, qualora il regolamento di condominio faccia divieto di svolgere nei locali di proprietà individuale determinate attività, non occorre accertare, al fine di ritenere l'attività stessa illegittima, se questa possa dar luogo o meno ad immissioni vietate a norma dell'art. 844 c.c., con le limitazioni ed i temperamenti in tale norma indicati, in quanto le norme regolamentari di natura contrattuale possono legittimamente imporre limitazioni al godimento della proprietà esclusiva anche diverse o maggiori rispetto a quelle stabilite dalla citata norma, e l'obbligo del condominio d'adeguarsi alla norma regolamentare discende in via immediata e diretta "ex contractu" per il generale principio espresso dall'art. 1372 c.c. (Nella specie trattavasi dell'apertura di birreria con musica dal vivo nonostante il divieto posto dal regolamento contrattuale di utilizzare porzioni di immobile di proprietà individuale per usi contrari alla tranquillità della collettività condominiale)”.
(Cass. civ., Sez. II, 04/04/2001, n.4963)

LE RICORRENTI PROBLEMATICHE DEI CANI CHE ABBIANO E DEL SUONARE UN QUALSIASI STRUMENTO MUSICALE
In entrambe le ricorrenti ipotesi, nel caso di molestie e rumori derivanti dal tenere cani e suonare strumenti musicali, i condomini lesi possono far cessare tali fattispecie in via giudiziale e ottenere il risarcimento dei danni, nel caso in cui siano stati posti in essere rumori intollerabili.
Infatti, specificatamente, “in caso di regolamento condominiale che vieti tassativamente di recare disturbo ai vicini con rumori di qualsiasi natura, il continuo abbaiare di tre cani pastore ed il suono di una batteria configurano sia la lesione di tale norma regolamentare, che la violazione dell'art. 844 c. c. (che vieta le immissioni di rumori che superino la normale tollerabilità, avuto anche riguardo alla condizione dei luoghi).(Trib. Milano, 28/05/1990)

NEL CASO DI MANCANZA DI ESPLICITA PREVISIONE REGOLAMENTARE. IL CONCETTO DI RUMORI INTOLLERABILI
Sul punto vi è una apposita pronuncia che specifica il concetto di rumore intollerabile.
“Quando il bene della tranquillità dei partecipi al condominio sia espressamente tutelato da disposizioni contrattuali del regolamento condominiale, non occorre accertare al fine di ritenere l'attività stessa illegittima, se questa costituisca o meno immissione vietata ex articolo 844 del c.c., in quanto le norme regolamentari di natura contrattuale possono imporre limitazioni al godimento della proprietà esclusiva anche maggiori di quelle stabilite dall'indicata norma generale sulla proprietà fondiaria. Né, peraltro, in detta materia è applicabile la legge 26 ottobre 1995 n. 447, sull'inquinamento acustico, perché detta normativa attiene a rapporti di natura pubblicistica tra la pubblica amministrazione e i privati esercenti le attività contemplate, prescindendo da qualunque collegamento con la proprietà fondiaria. Il limite di tollerabilità delle immissioni deve essere determinato dal giudice con riguardo alla condizione dei luoghi e delle attività normalmente svolte in un determinato contesto. Il criterio comparativo assume come punto di riferimento il rumore di fondo, ritenendosi intollerabili le immissioni che lo superano di 3 decibel, ciò che equivale a un raddoppio dell'intensità del rumore di fondo. (Trib. Bologna, Sez. III, 11/05/2004)

RIMEDI PROCESSUALI
“E' legittimo il ricorso al provvedimento ex art. 700 c. p. c. da parte di alcuni condomini, qualora le immissioni di rumore negli appartamenti di un edificio, provocate dal funzionamento, soprattutto nelle ore notturne, delle macchine esistenti nel sottostante panificio, eccedendo la normale tollerabilità, siano idonee a determinare nei condomini stessi una menomazione della loro integrità psico-fisica e, quindi, l'insorgenza di danno alla salute, autonomamente risarcibile” (Pret. Molfetta, 27/02/1989).
“La violazione del divieto di adibire un appartamento ad uso ufficio, contenuto in un regolamento condominiale, per il fatto di incidere sui diritti soggettivi assoluti e sulla personalità dei ricorrenti, determinando una situazione di disagio per la quiete e la tranquillità degli altri condomini, costretti a subire un continuo andirivieni di persone estranee e immissioni di rumore, non appare suscettibile di puro e semplice risarcimento pecuniario, sicché si impone la pronuncia dell'invocato provvedimento inibitorio (Pret. Milano, 15/03/1988).

RAPPRESENTANZA PROCESSUALE DEL CONDOMINIO Il comma 2 dell'art. 1131 c.c., nel prevedere la legittimazione passiva dell'amministratore in ordine ad ogni lite avente ad oggetto interessi comuni dei condomini (senza distinguere tra azioni di accertamento ed azioni costitutive o di condanna), deroga alla disciplina valida per le altre ipotesi di pluralità di soggetti passivi, soccorrendo, così, all'esigenza di rendere più agevole ai terzi la chiamata in giudizio del condominio, senza la necessità di promuovere il litisconsorzio passivo nei con fronti dei condomini. Pertanto, riguardo ad azioni negatorie e confessorie di servitù, la legittimazione passiva dell'amministratore del condominio sussiste anche nel caso in cui l'azione sia diretta ad ottenere la rimozione di opere comuni. (Nella specie, un condomino aveva chiesto la rimozione della centrale termica condominiale dal luogo in cui era stata installata, in quanto essa, tra l'altro, causava intollerabili immissioni di rumore nel suo appartamento. La S.C., in applicazione dell'enunciato principio, ha escluso che sussistesse il litisconsorzio passivo necessario dei condomini)(Cass. civ., Sez. II, 26/02/1996, n.1485)

Fonte: http://www.condominioweb.com/rumore-nel-condominio-le-ricorrenti-problematiche-dei-cani-che-abbiano-e-del.183#ixzz34VrlmaUW
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20/05/2013
Cass., sez. VI Civile – 2, ordinanza n. 12046 del 17/05/2013

Nel silenzio dei titoli per decidere la natura comune di un sottotetto si deve tenere conto della concreta prevalenza, rispetto alla funzione di copertura dello stabile condominiale, della concreta destinazione, conferita dall'originario proprietario costruttore, dei volumi in questione ad unità abitative autonomamente fruibili, ancorché ubicate sulla sommità dell'edificio e sottostanti al tetto comune.
Nella specie è stata respinta la rivendicazione di condominialità, proposta da alcuni condomini nei confronti dell'originario proprietario - costruttore e venditore dei singoli appartamenti, in quanto la Corte ha ritenuto i due sottotetti, al pari delle antistanti terrazze a livello, vere e proprie unità edilizie autonome, realizzate con regolare licenza edilizia, e pertanto non rientranti nel novero delle cose da presumersi comuni ai sensi dell'art. 1117 c.c. non assolvendo in particolare ad una preminente funzione di copertura degli immobili sottostanti.

Fonte: http://www.condominioweb.com/condominio/sentenza2295.ashx#ixzz34VqnqLQC
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Tribunale de L'Aquila, Sentenza 1° dicembre 2011, n. 769
La pronuncia che si annota suscita interesse in quanto costituisce una delle rare decisioni provenienti dalle corti di merito che, uniformandosi al principio di diritto ora enunciato in forma solenne dallo stesso giudice di legittimità, afferma e conferma, anche nella sede di merito, la natura solidale della responsabilità dei comproprietari di una unità immobiliare sita in condominio a fronte delle obbligazioni relative al pagamento degli oneri condominiali. Infatti, come avremo modo di esaminare, la pur naturale divisibilità dell'obbligazione pecuniaria dei comproprietari di un appartamento sito in un condominio di contribuire agli oneri condominiali, non preclude di affermare comunque la solidarietà del vincolo tra i contitolari medesimi.

Destinatario di un'ingiunzione di pagamento a titolo di oneri condominiali non corrisposti e relativi a diverse annualità, il comproprietario di un immobile sito in un condominio, in sede di opposizione, incentra la propria difesa sulla ritenuta parziarietà dell'obbligazione di pagamento delle spese condominiali relative alle unità oggetto di comunione ordinaria, con conseguente imputazione della somma rivendicata ed azionata in via monitoria dal condominio nei soli limiti della quota di proprietà dell'immobile.

La tesi avanzata dal comproprietario opponente, fondata su di una presunta estensione, anche alla fattispecie in esame, del criterio di parziarietà che oggi – grazie al contributo determinante delle Sezioni Unite della Corte di cassazione – governa il regime di responsabilità dei singoli partecipanti al condominio per le obbligazioni contratte verso i terzi, è tuttavia sconfessata dal giudice del merito, il quale nella pronuncia in esame uniforma quasi “per relationem” la propria decisione al “dictum” espresso in una recente sentenza della Suprema Corte (cfr., Cassazione civile, Sezione II, sentenza 21 ottobre 2011, n. 21907), la quale, nell'assumere una precisa posizione proprio in ordine alla specifica questione sollevata, ha espressamente enunciato il principio secondo il quale “i comproprietari di una unità immobiliare sita in condominio sono tenuti in solido, nei confronti del condominio, al pagamento degli oneri condominiali, sia perché detto obbligo di contribuzione grava sui contitolari del piano o della porzione di piano inteso come cosa unica ed i comunisti stessi rappresentano, nei confronti del condominio, un insieme, sia in virtù del principio generale dettato dall'art. 1294 c.c., secondo il quale, nel caso di pluralità di debitori, la solidarietà si presume. Nella parte motiva, il giudice del foro abruzzese precisa che il principio affermato dal Supremo Collegio in una nota pronuncia resa a Sezioni Unite (cfr., Cassazione civile, Sezioni Un, sentenza 8 aprile 2008, n. 9148) e diretto ad affermare la natura parziaria e non già solidale della responsabilità dei condomini per le obbligazioni contratte dall'amministratore in nome e per conto del condominio, non è suscettibile di essere esteso anche alla fattispecie in esame: non si tratta, infatti, di “principio di diritto” tale da porsi - in altre situazioni di condebito per obbligazioni pecuniarie - con la forza e con il “vincolo” che assiste l'enunciazione delle Sezioni Unite.

La decisione del foro aquilano ribadisce che, nella comunione ordinaria, le obbligazioni dei comproprietari, in particolare relativamente alle spese condominiali inerenti alla contitolarità “pro indiviso” di un appartamento facente parte di un condominio, ricadono nella disciplina del condebito ad attuazione solidale. L'opzione ermeneutica in favore del vincolo solidale accolta anche dal giudice del merito contribuisce a dare continuità ad un orientamento consolidato in seno alla giurisprudenza di legittimità. In particolare, pur nella diversità e nella evoluzione delle motivazioni addotte a sostegno della tesi favorevole ad affermare la natura solidale di siffatte obbligazioni, la questione risulta affrontata già verso la fine degli anni cinquanta. In particolare, sulla scorta delle stesse indicazioni provenienti dal Supremo Collegio è opportuno ricordare: (i) Cassazione civile, Sez. II, sentenza 5 giugno 1959, n. 1689, secondo cui l'obbligazione relativa alle spese condominiali incombente sui proprietari “pro indiviso” di un appartamento ha carattere solidale, sia perché l'obbligazione stessa viene determinata in funzione della porzione reale dell'immobile, sia perché i comunisti “pro indiviso” di una porzione non possono essere considerati direttamente condomini; (ii) Cassazione civile, Sez. II, sentenza 10 febbraio 1970, n. 335, secondo cui i comproprietari “pro indiviso” di un appartamento sito in un edificio condominiale non possono essere considerati quali condomini singoli, ma nel loro insieme, e, dunque, non essendo consentita, riguardo il pagamento delle spese condominiali, un'ulteriore divisione, tutti sono unitariamente, ed in modo indivisibile, obbligati rispetto il condominio; tale conclusione, specifica la corte di legittimità, risulta avvalorata dallo stesso dato normativo: art. 68 disp. att. c.c., il quale prevede che le spese siano corrisposte con riferimento al valore della singola entità immobiliare, considerata nella sua unitarietà; art. 67 disp. att. c.c., secondo cui qualora un piano o una porzione di piano appartenga in proprietà indivisa a più persone, queste hanno diritto ad un solo rappresentante nell'assemblea condominiale; (iii) Cassazione civile, Sez. II, sentenza 21 ottobre 1978, n. 4769, la quale ha espressamente affermato che i comproprietari di un appartamento in edificio condominiale sono debitori solidali, verso il condominio, per il pagamento delle spese di cui all'art. 1123 c.c., sicché l'amministratore del condominio può esigere da ciascuno di essi l'intero ammontare del debito, salvo il regresso del “solvens” nei confronti dei condebitori, contitolari della stessa porzione di piano: in forza di tale sentenza, la circostanza che di quelle parti immobiliari individue il soggetto sia comproprietario, non lo esonera né gli limita, verso il condominio, il debito; secondo i principi della solidarietà passiva (art. 1294 c.c.), egli è infatti tenuto per la totalità dell'obbligazione, salvo ripetere dai condebitori la parte di ciascuno di essi (art. 1299 c.c.); (iv) Cassazione civile, Sez. II, sentenza 4 giugno 2008, n. 14813, la quale, affrontando un caso di comunione ordinaria di un appartamento in condominio nel quale il ricorrente si doleva della condanna al pagamento anche della quota di contributi imputabile all'altro comproprietario, ha rigettato la censura rilevando che il motivo non chiarisce “perché nella specie dovrebbe essere derogato il principio generale di cui all'art. 1292 c.c. secondo il quale la solidarietà si presume nel caso di pluralità di debitori”.

La decisione in esame, pur nella sinteticità della motivazione, si muove nel solco della recente sentenza resa dal giudice di legittimità: sentenza che, per ampiezza e coerenza del tessuto motivazionale che la sorregge, è ora opportuno ripercorrere brevemente ai fini di una compiuta ed esauriente analisi della questione affrontata anche dal giudice del foro abruzzese. In primo luogo, la decisione, soffermandosi sulla natura dell'obbligazione relativa alle spese condominiali facente carico ai proprietari “pro indiviso” di un appartamento sito in condominio, precisa che l'obbligazione delle spese condominiali viene determinata con riferimento al valore del piano o porzione di piano “spettante in proprietà esclusiva ai singoli condomini”, come espressamente stabilito dall'art. 68 disp. att. c.c., agli effetti indicati dagli artt. 1123, 1124, 1136, c.c., previsione coerente con la stessa destinazione delle cose comuni, serventi a porzioni reali dell'immobile e non già a quote ideali. Inoltre, dal lato soggettivo, nel caso di comunione inquadrata nel condominio quale elemento complesso, la comunione medesima viene riguardata, sul piano del diritto positivo, “più nel suo aspetto unitario che non in quello della scomposizione nei singoli diritti di proprietà sulla quota ideale”, come conferma il disposto dell'art. 67 disp. att. c.c., il quale prevede che i comproprietari abbiano un solo rappresentante in assemblea. In altri termini, sottolinea efficacemente la Suprema Corte, poiché l'obbligo del contributo grava sul titolare del piano o della porzione di piano inteso “come cosa unica” e poiché i comproprietari costituiscono, rispetto al condominio, un insieme, ciascuno è tenuto in solido verso il condominio. Infatti, prosegue il giudice di legittimità, nelle obbligazioni contratte per o relative alla cosa comune (artt. 1100 ss. c.c.), ricorrono tutte le condizioni per l'operatività della c.d. presunzione di cui all'art. 1294 c.c.: (i) pluralità di creditori legati da un vincolo di comunione; (ii) unicità della prestazione; (iii) unità della fonte (la c.d. “eadem causa obligandi” del diritto romano). Sotto tale profilo, non rileva che l'obbligazione derivi dalla legge in luogo del contratto: la regola della solidarietà riguarda ogni tipo di obbligazione e non soltanto quelle derivanti da contratto; in quanto tale, essa è destinata ad abbracciare anche l'obbligazione di partecipare alle spese per l'amministrazione della cosa comune, le quali trovano la loro fonte talvolta nella delibera dell'assemblea o nell'attività dell'amministratore, e talvolta direttamente nella legge. Neppure rileva che il condebito si innesti su una situazione, la comunione ordinaria, dominata dal principio della quota. Infatti, la ripartizione pro quota delle spese comuni - ricavabile dal combinato disposto degli artt. 1101 e 1104 c.c. - investe esclusivamente i rapporti interni tra comunisti, non implicando anche un'attuazione parziaria dell'obbligazione per quanto attiene ai rapporti esterni con il creditore. La conferma dell'operatività della regola della solidarietà nei confronti del creditore per le obbligazioni assunte dai comproprietari per la cosa comune, si evince dal disposto dell'art. 1115 c.c. il quale, nel richiamare la solidarietà non come semplice dato di fatto ma come effetto giuridico, contiene anche un tratto peculiare del debito dei comproprietari per la cosa comune rispetto al generale funzionamento dei condebiti ad attuazione solidale, con la previsione della facoltà accordata a ciascun partecipante di esigere l'estinzione delle obbligazioni in solido contratte per la cosa comune, prelevando la somma occorrente dal prezzo di vendita della cosa stessa. La solida impalcatura argomentativa a sostegno del regime della solidarietà porta inevitabilmente a concludere che i comproprietari di un appartamento in edificio condominiale sono debitori solidali verso il condominio per il pagamento delle spese condominiali: l'amministratore di condominio potrà pertanto agire ed esigere da ciascuno di essi l'intero ammontare del debito, salvo il regresso del “solvens” nei confronti degli altri condebitori.
25/01/2016
Avv. Dolce Rosario

La Corte di Cassazione, con sentenza n° 1209pubblicata il 22 gennaio 2016, ha sancito un nuovo principio secondo il quale gli interessi del singolo condòmino al ripristino funzionale della caldaia comune prevalgono su quelli degli altri vicini

Dismettere l'impianto centralizzato di riscaldamento in condominio degli edifici richiede l'unanimità dei consensi. L'assemblea dei condòmini non è sede legittimata a provvedere sul merito, a meno che in essa non si faccia convergere le adesioni di tutti i compartecipi, nessuno escluso (Corte di Cassazione, 892/2015).

Quadro normativo. La legge di riferimento, in materia, è il Decreto del Presidente della Repubblica 2 aprile 2009, n. 59 contenente il regolamento di attuazione dell' articolo 4, comma 1, lettere a) e b), del decreto legislativo 19agosto 2005, n. 192 per l'attuazione della direttiva 2002/91/CE sul rendimento energetico in edilizia (G.U. n. 132 del 10 giugno 2009).

Siffatta normativa prevede l'inibizione della soppressione di un impianto di riscaldamento centralizzato preesistente in condominio, se non dietro la presentazione di una relazione tecnica nella quale vengano asseverati prevalenti limiti di carattere tecnico economico (art. 4, comma 9).

Con il Decreto Legislativo 102/2014 è stato poi previsto l'obbligo di adeguamento degli stessi impianti condominiali, entro il 31 dicembre 2016,con l'introduzione di sistemi volti a garantire la termoregolazione e la contabilizzazione del consumo individuale.

Ciò opportunamente premesso, il caso che ci apprestiamo a commentare riguarda la riduzione in pristino di un impianto di riscaldamento centralizzato condominiale dismesso da circa dieci anni, successivamente alla declaratoria di nullità di una delibera condominiale.

Il caso. Una condomina ha citato in giudizio il condominio ove risiedeva per chiedere di provvedere al ripristino funzionale dell'impianto centralizzato di riscaldamento, pertanto, illegittimamente dismesso.

Il condominio si è costituito in giudizio ed ha tacciato l'azione di temerarietà. Postulerebbe - secondo siffatta difesa - un atto emulativo la richiesta di parte attrice, siccome i condòmini, a seguito della originaria deliberazione, avevano provveduto a realizzare uti singulis degli impianti autonomi, investendo non pochi danari. Molti di più, viceversa, sarebbero dovuti occorrere per ripristinare l'impianto originario comune.

Il Tribunale di Foggia, qualificando l'azione come possessoria, accoglieva la domanda della attrice, sì da condannare il condominio a provvedere all'immediato pristino funzionale dell'impianto centralizzato di riscaldamento.

La Sentenza veniva in seguito impugnata avanti la Corte di Appello territorialmente competente.

I giudici di merito collegiali hanno apprezzato i motivi di gravame sollevati dal Condominio soccombente, ribaltando l'esito della causa.

Dopo aver ritenuto che l'azione in commento avesse natura petitoria e non possessoria, il decidente di seconde cure ha ritenuto che essa (domanda) potesse essere qualificata come atto emulativo. A tal proposito, è stato argomentato in sentenza che l'attrice (appellata) anche se aveva ottenuto la nullità della delibera originaria, in sede di impugnazione, ben prima, aveva omesso di chiedere che ne fosse immediatamente inibita la efficacia; frattanto, i numerosi condòmini dell'edificio, facendo affidamento sull'allora efficace statuizione, si erano dotati di impianto autonomo per salvaguardare le esigenze di riscaldamento interne alle proprie abitazioni.

Ergo, secondo la Corte di Appello adita la pretesa azionata dalla condòmina configurava una sorta di "abuso del diritto", potendo la rispettiva domanda trovare soddisfazione attraverso il ricorso al risarcimento del danno per equivalente (cioè in danaro e non quindi secondo il presupposto dell'alternatività della "forma specifica", come invece preteso).

Da non perdere: Condannato il condominio che non provvede alla manutenzione dell'impianto di riscaldamento

La "impavida" condomina non si è però scoraggiata e ha deciso di ricorre avanti la Suprema Corte diCassazione per chiedere "Giustizia". La sua tenacità qui è stata qui premiata!

La Sentenza. I Giudici di Legittimità, esaminati tutti i motivi di doglianza e unificandoli nella trattazione, ha elaborato un principio di diritto sul merito che è destinato a lasciare un solco indelebile nella gestione delle vicende condominiali relativamente alla gestione di un impianto centralizzato di riscaldamento ormai dismesso.

La Suprema corte ha commentato il concetto di "atto emulativo" ascrivendogli un significato diverso rispetto quello assegnato dai giudici di merito di secondo grado.A parere degli Ermellini, postula un atto emulativo quello che, benché tragga fondamento in una fonte legittima,si pone in termini di obiettiva inutilità per il proprietario-richiedente si configuri, nello stesso tempo, come dannoso per i destinatari della pretesa (da cui gli estremi anche dell'abuso del diritto).

Ora, nella fattispecie de qua, il ripristino funzionale dell'impianto di riscaldamento centralizzato non può essere equiparato ad un atto emulativo, in quanto tale inteso, siccome esso in sé integra appieno un interesse meritevole di soddisfazione, già in forza della declarata invalidità di cui era affetta la delibera assunta dall'assemblea dei condòmini.

La Corte di Appello di Bari avrebbe quindi indebitamente formulato un giudizio di proporzionalità fra l'utilità conseguibile dalla condomina e l'onerosità che ne sarebbe derivata in capo ai condomini, così da giungere apoditticamente a considerare "abusivo" il diritto preteso dalla condomina ricorrente: che tale, invece, non può essere ritenuto.

Donde, il Giudice supremo ha deciso di rinviare la causa al Giudice di secondo grado di modo ché lo stesso possa nuovamente entrare nel merito della decisione, previa applicazione del principio di diritto che ha avuto cura di esprimere nella sentenza in commento.

Tanto vale per concludere affermando che ogni condominio che abbia dismesso"illegittimamente" il proprio impianto centralizzato per il riscaldamento, cioè non raccogliendo previamente la unanimità dei consensi, è astrattamente a rischio di ripristino funzionale su mera iniziativa individuale, e ciò indipendentemente dalle varabili del"tempo" e dei "costi".

Attenzione, allora, perché questo inverno potrebbe rivelarsi rovente...
Avv. Cristiano Cominotto. Dott.ssa Giovanna Calderoni, AssistenzaLegalePremium.it | 22 giugno 2015

La Corte di Cassazione civile, sezione lavoro, attraverso la recente sentenza dell'8 giugno 2015, n. 11789 si è espressa negativamente riguardo al ricorso proposto dal Ministero dell'Economia e delle Finanze e dall'Agenzia del territorio, e li ha condannati, in definitiva, a pagare le spese processuali ritenendo le loro pretese del tutto infondate.
Tali doglianze si ricollegavano ad una causa promossa da un loro dipendente la quale aveva trovato accoglimento, sia dal giudice di prime cure, il Tribunale di Grosseto, che dalla Corte d'appello di Firenze.
La vertenza in questione riguardava una fattispecie di mobbing verificatasi nei confronti di un lavoratore che aveva subito atti vessatori da parte dei suoi colleghi a partire dal novembre 1997. Tale fatto accadeva in quanto da poco tempo gli era stata diagnostica "un'infiammazione alle vie aeree" ed il datore di lavoro era stato sollecitato, dall'azienda sanitaria, a tutelare i propri dipendenti dai rischi di fumo passivo ed a prendere le dovute cautele per evitare la loro esposizione a tali inalazioni.
Nel caso de quo, però, il datore di lavoro non aveva adoperato alcuna precauzione per far si che il lavoratore non fosse soggetto all'esalazione di fumo emesse dalle sigarette degli utenti dell'azienda nonché degli altri colleghi e del suo stesso capo reparto.
Per tali ragioni, il dipendente si era ritrovato in una circostanza tutt'altro che gradevole dove non trovava nessun supporto per la sua malattia, neppure dai colleghi più stretti.
Al contrario, il lavoratore era spesso oggetto di comportamenti denigratori da parte dei suoi colleghi che lo definivano "petulante" e "meticoloso". Non mancavano, inoltre, manifestazioni pubbliche di beffeggiamento, quali ad esempio "l'affissione nella bacheca aziendale della richiesta del lavoratore di essere sottoposto a visita medica; il cambio delle chiavi della sua stanza senza prima avergli consegnato quelle nuove" ed altre.
I Giudici della Suprema Corte hanno quindi cristallizzato quanto pronunciato dalle sentenze emesse dai giudici dei precedenti gradi di giudizio, confermando la condanna ad un risarcimento del danno di 50.000 euro da parte dei datori di lavoro. Con riferimento alla condotta dei ricorrenti veniva espressamente sancito che: " essa non esclude l'illiceità del comportamento posto in essere nei confronti del lavoratore ma eventualmente incide sulla ripartizione interna della misura della responsabilità di ciascuno dei coobbligati."
Precedentemente, la Corte d'Appello di Firenze, ai fini di illustrare le condizioni di malessere del dipendente, esponeva quanto segue: " il lavoratore, in data 8 aprile 1999 aveva faticato a farsi assegnare mansioni confacenti all'inquadramento; (…) con un nuovo verbale del 15 giugno 2001 in sede giudiziale l'Agenzia del territorio assunse una serie di obblighi per far rispettare il divieto di fumo e per tutelare maggiormente la posizione professionale del lavoratore fino a che nell'ottobre 2001 il lavoratore decise di lasciare l'ufficio distaccandosi presso il Comune." Gli stessi giudici di secondo grado avevano oltretutto comprovato dal c.t.u un'invalidità permanente del dipendente pari al 13% " come lesione all'integrità psicofisica del soggetto e il danno esistenziale quale peggiorata qualità di vita".
In conclusione, gli ermellini, avendo preso conoscenza di quanto esposto dai precedenti gradi di giudizio, e delle modalità chiare e palesi in cui la vicenda si sviluppava oltre che delle conseguenze che da questa derivavano, per tutelare la vittima in questione, non potevano far altro che riconfermare quanto già sentenziato e rigettare il ricorso dei proponenti, condannandoli a pagare le spese processuali previste dalla legge.

Da il sole 24 ore
La Cassazione ha confermato che senza il consenso unanime dei condòmini non è consentita la trasformazione degli impianti centralizzati in unifamiliari a gas

Con la sentenza n. 862/2015, la Corte di Cassazione ha confermato la nullità della delibera del condominio che, in assenza del consenso unanime dei condòmini, ha deciso per la dismissione dell’impianto di riscaldamento centralizzato e la trasformazione in impianti autonomi.

Non basta infatti la sola maggioranza qualificata a rendere legittima la delibera. I condòmini contrari alla dismissione dell'impianto centrale, e che quindi sono costretti a spese non volute o non preventivate, hanno diritto al risarcimento dei danni derivanti dalla soppressione del servizio comune che li ha privati dell’uso dell’impianto di riscaldamento.

L'EVOLUZIONE NORMATIVA. Ricordiamo che l’art. 26 punto 2 della legge 10/91 prevedeva originariamente il riferimento all’art. 8 della medesima legge, consentendo l’approvazione, con maggioranze ridotte, del progetto di trasformazione dell’impianto centralizzato di riscaldamento in impianti unifamiliari a gas per il riscaldamento e la produzione di acqua calda sanitaria. Tale riferimento è stato eliminato dall’art. 7 del D. Lgs. 29.11.2006 n. 311 (modificato dall’art. 27 comma 22 della l. 23.7.2009, n. 99).

L’art. 4, comma 9, del DPR 2.4.2009, n. 59, stabilisce che la trasformazione in impianti con generazione di calore separata per singole unità abitative, in tutti gli edifici esistenti con un numero di unità abitative superiore a 4 e, comunque, nel caso in cui sia presente un impianto di riscaldamento centralizzato di potenza di almeno 100 kW, è ammessa solo in presenza di cause tecniche o di forza maggiore, da evidenziarsi nella relazione tecnica attestante la rispondenza alle prescrizioni per il contenimento del consumo energetico che deve essere depositata in Comune ai sensi dell’art. 28 della L. 10/91.

La trasformazione dell’impianto centralizzato in impianti autonomi è espressamente esclusa, ai fini dei benefici fiscali, dagli interventi di riqualificazione energetica (art. 9 del decreto interministeriale 19.2.2007).
Cassazione Civile, sez. II, sentenza 15/10/2015 n° 20816

Pubblicato il 16/11/2015

Per proporre l'azione di accertamento dei diritti dominicali non è necessario il mandato di tutti i condomini, potendo l'amministratore agire ex art. 1130, n. 4 c.c. e art. 1131 c.c.

Invero, se non si dubita che, dal lato attivo, non occorra la partecipazione di tutti i condomini nei giudizi promossi a tutela dell'utilizzazione e del godimento dei beni comuni (art. 1130, n. 4 c.c.), non diversamente deve ritenersi per quanto concerne la legittimazione passiva dell'amministratore, che è prevista dall'art. 1131, co. 2 c.c., con specifica disposizione dettata in materia di condominio. Peraltro, tale legittimazione ha portata generale in quanto estesa a ogni interesse condominiale, essendo la ratio della norma diretta a evitare il gravoso onere a carico del terzo o del condomino, che intenda agire nei confronti del condominio, di evocare in giudizio tutti i condomini; naturalmente, per le cause aventi a oggetto materie che eccedono le attribuzioni dell'amministratore, ai sensi del citato art. 1131, co. 3 c.c., il potere di rappresentanza in giudizio dell'amministratore è subordinato alla autorizzazione a resistere (o anche alla ratifica) da parte dell'assemblea, alla quale l'amministratore è tenuto senza indugio a riferire. (1)

(*) Riferimenti normativi: artt. 11301131 c.c.; art. 77 c.p.c.
(1) Cfr. Cass. Civ., SS.UU., sentenza 6 agosto 2010, n. 18331 e Cass. Civ., sez. II, sentenza 31 gennaio 2011, n. 2179.

(Fonte: Massimario.it 28/2015)

(Cfr. nota su Altalex Esami e Concorsi Schede di Giurisprudenza)
04/12/2015
di Avv. Giuseppe Donato Nuzzo

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 44458 del 4 novembre 2015 ha confermato la condanna all'ammenda a carico del condomino del piano di sopra che, secondo quanto accertato in giudizio, aveva l'abitudine di buttare bottiglie di plastica ed altri rifiuti dal proprio balcone, che finivano per sporcare il cortiletto al piano terra. Un comportamento non solo incivile, ma penalmente rilevante, che secondo i giudici della terza sezione penale configura il reato di “gettito di cose pericolose” previsto dall'art. 674 cod. pen.

La norma, in particolare, sanziona con l'arresto fino a un mese o con l'ammenda fino a 206 euro chi «getta o versa, in un luogo pubblico o in un luogo privato ma di comune o di altrui uso, cose atte a offendere o imbrattare o molestare persone, ovvero nei casi non consentiti dalla legge, provoca emissioni di gas, di vapori o di fumo, atti a cagionare tali effetti».

L'imputato aveva provato ad impugnare la condanna inflitta dal tribunale di merito, sostenendo che non vi erano prove del comportamento contestato, poiché il giudizio di colpevolezza era fondato unicamente sulle dichiarazioni rese dalla persona offesa (il proprietario del giardino in cui avvenivano i “lanci” di spazzatura), quindi non attendibili. Inoltre, sosteneva l'imputato che il giardino in questione era comune e non di proprietà esclusiva della parte offesa. In ogni caso, contestava la decisione del tribunale di negargli il beneficio della sospensione condizionale della pena, nonostante fosse incensurato.

Ma per i giudici di legittimità le dichiarazioni della parte offesa sono sufficienti ad incastrare l'imputato, anche perché supportate da una serie di fotografie che ritraggono il giardino trasformato in ricettacolo di rifiuti.

In particolare, la Cassazione sottolinea che la responsabilità penale dell'imputato può anche essere basata sulle sole dichiarazioni della persona offesa costituita parte civile nel giudizio, se queste, dopo le verifiche più rigorose di quelle riservate ad altri testimoni, risultano attendibili. E nel caso in esame, il condomino aveva dichiarato di avere visto più volte l'imputato lanciare bottiglie dal balcone e, a supporto delle proprie affermazioni, aveva prodotto le foto del suo giardinetto, nel quale si erano accumulati i rifiuti gettati dal vicino. Per gli Ermellini si tratta di elementi sufficienti a provare la responsabilità del ricorrente, che peraltro aveva in corso altri procedimenti per fatti analoghi.

=> I lanci dal balcone dei bambini

La suprema Corte ha confermato anche il rifiuto della sospensione condizionale da parte del tribunale di merito, malgrado l'imputato fosse incensurato: il giudice può, infatti, fondare il suo «giudizio pronostico sulla futura astensione del soggetto dalla commissione di nuovi crimini sulla capacità a delinquere dell'imputato desumendola dai precedenti giudiziari, ancorché non definitivi». Un principio che non contrasta con la presunzione di non colpevolezza fino alla condanna definitiva, perché nella valuta zione non pesa la certezza che l'imputato abbia o meno commesso i reati che gli vengono contestati, ma solo la condizione in cui si trova, che costituisce un precedente giudiziario.

I precedenti

Già in passato la Cassazione ha avuto modo di esprimersi sul reato di gettito di cose pericolose nell'ambito dei rapporti di vicinato, con particolare riferimento al contesto condominiale.

Nel 2014 (sentenza n. 15956) la Corte aveva confermato la condanna per lo stesso reato nei confronti del condomino col pollice verde, che innaffiava le piante facendo cadere, sulle proprietà sottostanti, acqua, fango e terriccio. Di un anno prima la sentenza che aveva condannato una condomina che era solita gettare mozziconi di sigarette nel balcone del vicino, al piano di sotto, con l'applicazione peraltro dell'aggravante della reiterazione del reato (Cass. pen. n. 16459/2013). In un'altra occasione, gli Ermellini avevano condannato il proprietario di cani e gatti che non aveva predisposto gli opportuni accorgimenti per evitare che gli escrementi o l'urina degli animali finissero nelle proprietà sottostanti (Cass. civ. n. 32063/2008).

Al contrario, è stata escluso il reato in esame con riferimento alla “pioggia” di polvere e briciole prodotta dallo scuotimento di tappeti o tovaglie (Cass. pen. n. 27625/2012), perché si ritiene che, generalmente, tale condotta non sia idonea a causare imbrattamenti e molestie alle persone, come espressamente richiesto dall'art. 674 c.p.
L’amministratore deve esporre i cartelli col divieto di fumo ed è personalmente responsabile in caso di violazione; anche i singoli condomini sono liberi di denunciare alle autorità competenti la violazione del divieto di fumo nei locali chiusi condominiali.

Ormai tutti sanno – o dovrebbero sapere – che non si può violare il divieto di fumo nei locali pubblici (per esempio: una pubblica amministrazione) o aperti al pubblico (per esempio: un cinema, una scuola). Addirittura, proprio qualche settimana fa la Cassazione ha riconosciuto il risarcimento al lavoratore dipendente per il fumo passivo inalato durante le ore di servizio (leggi “Fumo passivo nel luogo di lavoro”).

Di converso, posto che ciascuno può fare ciò che vuole nella propria casa, non vi è alcun limite a sigarette, pipa e sigari all’interno delle quattro mura domestiche. E ciò, purtroppo, anche in presenza di bambini (il dovere di rispettare la salute della prole richiederebbe maggiore severità anche su questo fronte: senonché è difficile pensare a un figlio che denunci il proprio genitore).

Ma cosa ne è degli spazi condominiali? Si può fumare nelle scale, nel giardino o nel garage? Come noto, le aree condominiali sono in comunione e ciascuno le può usare liberamente (purché non ne alteri la destinazione e non ne impedisca pari uso anche agli altri condomini).

In verità, il divieto di fumare [1] si applica anche ai locali chiusi dei condomini come, per esempio, androne, scale, ascensore.

Il Ministro della Salute [2] ha chiarito che il divieto è motivato dall’indubbia esigenza di garantire, anche in ambito condominiale, la tutela della salute dal fumo passivo.

Questi spazi, infatti, non possono essere equiparati ad un’abitazione privata, in quanto frequentati da condomini e da altre persone (per esempio, portiere, addetti alla manutenzione degli impianti, portalettere) che vi svolgono la propria attività lavorativa e alle quali dev’essere estesa e garantita la tutela prevista dalla legge.

Da ciò deriva che l’amministratore è tenuto a esporre nell’androne, sulle scale e nell’ascensore i cartelli che prescrivono il divieto di fumo e a vigilare sulla sua osservanza. Nessuno, quindi, potrebbe fumare durante un’assemblea di condominio che si tenga nel garage, in una sala condominiale o, peggio, nelle scale. Addirittura, se l’amministratore non lo vieta ne potrebbe rispondere personalmente, anche con delle sanzioni.

I condomini e i frequentatori del fabbricato, per parte loro, possono “bacchettare” i trasgressori al rispetto del divieto e, in caso di inosservanza, segnalare la violazione alle autorità competenti.

La Corte di Cassazione [3] ha stabilito che, se le immissioni di fumo di sigaretta provenienti dal sottostante bar superano la normale tollerabilità, l’inquilino del soprastante appartamento può chiedere il risarcimento del danno non patrimoniale.


[1] Introdotto dalla l. n. 3 del 16.01.2003.
[2] Ministero della Salute, nota n. 1505 del 24.01.2005.
[3] Cass. sent. n. 7875 del 31.03.2009.
04/12/2015
Dott.ssa Marta Jerovante

Garanzia per vizi del la cosa venduta: i l dies a quo del termine per la denuncia ex ar t. 1495 c.c. decorre dal l'acquisizione del la cer tezza e del l'evidenza del vizio

Il presupposto dell'obbligazione di garanzia Il codice civile prevede, a tutela dell'interesse del compratore che abbia acquistato un immobile, una responsabilità del venditore per i vizi della cosa preesistenti alla conclusione del contratto, riconducendo la nell'alveo di un'obbligazione di garanzia nascente dal contratto stesso. L'art. 1490, comma 1, c.c. stabilisce in particolare che «il venditore è tenuto a garantire che la cosa venduta sia immune da vizi che la rendano inidonea all'uso a cui è destinata o ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore».

Detta garanzia opera però in presenza di vizi materiali occulti o comunque non facilmente riconoscibili da parte dell'acquirente.

Il caso La proprietaria di un appartamento adiva in giudizio i suoi danti causa, per vederne accertata la responsabilità per vizi e difetti dell'immobile, con conseguente condanna al risarcimento dei danni subiti. Lamentava l'attrice di aver riscontrato, subito dopo l'acquisto, «macchie di umidità derivate da mancata corretta esecuzione di vespaio areato», dichiarando altresì di aver provveduto all'immediata denuncia dei vizi medesimi, «non […] immediatamente riscontrabili, in quanto l'immobile era stato oggetto di recente ristrutturazione con rifacimento intonaco e pittura». I convenuti eccepivano, dal canto loro, la decadenza dall'esperita azione di garanzia e la prescrizione del diritto per denuncia tardiva dei vizi oggetto del procedimento.

Il giudice di prime cure accoglieva la domanda attorea, limitatamente ad alcuni profili: chiariva, in particolare, che nel caso di specie si fosse in presenza di «vizi occulti», di «non immediata percezione» se non a seguito di valutazioni peritali. Il Tribunale richiamava dunque l'orientamento giurisprudenziale secondo cui «II termine di decadenza per la denunzia dei vizi della cosa venduta, stabilito dall'art. 1495, c.c., anche se deve essere riferito alla semplice manifestazione dei vizi, e non già all'individuazione delle loro cause, decorre soltanto dal momento in cui il compratore abbia acquisito la certezza oggettiva, oltre che della loro esistenza, anche della loro consistenza»; di conseguenza, ai fini della verifica della tempestività della de nuncia, si dovrà fare riferimento al momento in cui il soggetto abbia raggiunto un'oggettiva e completa certezza dell'esistenza del difetto e non quando il medesimo sia divenuto astrattamente riconoscibile (Cass., sez. II, 6 maggio 2005, n. 9515, citata in motivazione). Proponevano appello i convenuti soccombenti, insistendo per l'accoglimento dell'eccezione di decadenza: lamentavano specificamente la mancata prova, da parte dell'attrice, della tempestività della denuncia dei vizi.

Difetto vs causa: la decisione L'acquirente che intenda agire per ottenere la garanzia di cui all'art. 1490 c.c. deve denunciare il vizio «entro otto giorni dalla scoperta, salvo il diverso termine stabilito dalle parti o dalla legge» (art. 1495, comma 1, c.c.). Quando i vizi sono palesi e di immediata percezione, il termine per la denuncia decorre dal momento della consegna del bene; nel caso in cui si tratti di vizi occulti, il momento della scoperta coinciderà, evidentemente, con il momento in cui il vizio si manifesta. Nella differente ipotesi – richiamata nel caso di specie – in cui il vizio o difetto consista poi in un'imperfezione rinvenibile solo per effetto di un'indagine tecnica, il concetto di ‘‘scoperta'' andrà inteso come un apprezzabile grado di conoscenza oggettiva della gravità dei difetti e della loro derivazione causale dall'imperfetta esecuzione dell'opera (Cass. civ., 13 gennaio 2005, n. 567). Di conseguenza, il termine di decadenza decorrerà solo all'atto dell'acquisizione degli idonei accertamenti tecnici (tra le tante, Cass. civ., 20 marzo 1998, n. 2977).

Invero, il giudice dell'impugnazione, nel caso in commento, distingue la scoperta del vizio (infiltrazioni di acqua fonte di notevoli macchie di umidità), «intesa come estrinsecazione», dall'individuazione della causa di esso (mancanza di adeguato vespaio areato).

Come si chiarisce in dottrina, nell'ipotesi in cui sia necessaria una certa competenza tecnica per l'individuazione del vizio – e per la definizione del nesso di causalità tra il vizio e l'esecuzione dell'opera –, la ‘‘scoperta'' del vizio medesimo discenderà dall'«indagine tecnica che non solo lo avrà individuato, ma lo avrà altresì ricondotto causalmente alla realizzazione dell'opera» (CIRLA, MONEGAT [a cura di], Compravendita. Condominio. Locazioni, Milano, 2014). => Costruzione,il termine per la denuncia dei vizi decorre dal momento della loro conoscenza

La Corte meneghina ha invece ritenuto che «l'individuazione della causa è volta all'individuazione del soggetto a cui imputare il vizio, o anche a valutarne la gravità (come accade nell'ipotesi di cui agli artt. 1668 e 1669 c.c.) per individuare l'azione da compiere e il soggetto contro cui indirizzarla»; pertanto, «il termine di decadenza comincia a decorrere quando l'acquirente abbia la certezza obiettiva del vizio, anche se ne ignora la causa», chiarisce il giudice.

L'onere della prova In tema di azioni di garanzia per i vizi della cosa e mancanza di qualità, si rammenta inoltre che l'onere della prova dei difetti e delle eventuali conseguenze dannose, nonché dell'esistenza del nesso causale tra i primi e le seconde, grava sul compratore, il quale dovrà altresì fornire la prova della tempestività della denuncia a fronte dell'eccezione di intervenuta decadenza sollevata dal venditore.

Nel caso in questione, il Giudice dell'appello ha giudicato non provata detta circostanza: l'acquirente aveva addotto di aver inviato ai venditori la comunicazione (di denuncia) il giorno successivo all'acquisizione della relazione tecnica prodotta dal professionista da lei stessa incaricato – circa un anno dopo la stipulazione del contratto di compravendita –, ma l'organo giudicante ha negato che sia stato quello il momento in cui alla parte compratrice i vizi si siano manifestati con certezza.

Come del resto evidenziato anche dal tecnico, la mancanza di un adeguato vespaio aveva prodotto infiltrazioni a tal punto gravi che il pavimento dell'appartamento era costantemente umido; ma che si trattasse di infiltrazioni certe ed evidenti già a distanza di pochi mesi dall'acquisto della proprietà e del possesso dell'appartamento lo aveva confermato la stessa acquirente nell'atto introduttivo del giudizio di primo grado quando aveva affermato che «a pochi mesi dall'acquisto, in corrispondenza di alcuni violenti temporali, comparivano notevoli macchie di umidità e muffe maleodoranti…».

Già allora, quindi, la nuova proprietaria aveva acquisito la certezza che l'immo bile presentasse vizi di infiltrazioni di acqua, pur ignorandone la causa.

Il giudice dell'appello ha quindi dichiarato l'intervenuta decadenza dalla garanzia per vizi ex art. 1495 c.c.

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